| Eroi da taverna (Frammenti 128-26-26 a) Questi tre frammenti ci presentano personaggi del tutto sconosciuti, esponenti di quella pittoresca e canagliesca umanità che popolava le città della costa asiatica, frequentate da gente di ogni risma. Il poeta li osserva con occhio impietoso, pronto a bollarne le miserie morali e materiali con versi pieni di caustico sarcasmo.
Musa, il figlio di Eurimedonte, Cariddi che il mare risucchia, che ha nella pancia un coltello*, che si ingozza senza pudore, cantami, perchè crepi di mala morte, con voto di condanna, per volontà popolare, sulla riva del mare instancabile.
Uno di loro, in santa pace e senza economia, banchettando tutti i giorni a tonno e intingoli* come un eunuco di Lampsaco, si mangiò il patrimonio; e ora bisogna zappare le petraie di montagna, rosicchiando un po' di fichi secchi e pane d'orzo, un foraggio da schiavi.
Senza più spolpare pernici e lepri, senza spalmare sesamo sulle focaccine, senza tuffare le frittelle nel miele.
*: L'espressione, non chiarissima, vorrà dire che è tanta l'avidità con cui questo repellente individuo ingurgita il cibo senza nemmeno tagliarlo, da far pensare che abbia nello stomaco il coltello di cui non si serve a tavola. **: Il tonno, salato o sott'olio, era considerato un cibo da ricchi, come pure l'altra pietanza, una salsa di formaggio, aglio e aceto.
Nel primo frammento, Ipponatte ci offre un esempio del tutto nuovo della poesia scommatica, arguta e mordace, costruita interamente con espressioni omeriche sfruttate a fini parodistici, dimostrando così la sua grande familiarità con il linguaggio dell'epos. Per schernire un personaggio a noi sconosciuto, ma caratterizzato da un appetito...epico (potrebbe anche trattarsi di una scherzosa iperbole, destinata a stigmatizzare il comportamento ineducato di un compagno di simposio troppo avido), Ipponatte esordisce con un solenne incipit, che contamina il primo verso dell'Iliade con il primo dell'Odissea. Vi aggiunge poi un àpax di sua creazione, pontokàrubdin, con cui vuole indicare non solo l'enorme quantità di liquidi che l' "eroe" della scena è capace di ingurgitare, ma anche i rumori che produce nell'ingozzarsi senza misura, tanto da meritarsi una condanna a morte per decreto popolare, da eseguirsi "sulla riva del mare instancabile"; conclusione anch'essa di tono epico, sottolineata con l'utilizzazione, del tutto fuori luogo e per questo comica, di un emistichio omerico formulare (Iliade, libro I, 316 e numerosi altri luoghi). Anche il protagonista del secondo frammento è uno sconosciuto, che ha dilapidato l'intero patrimonio a causa di un eccessivo amore per la buona tavola. Ora che non ha più mezzi, la miseria lo ha costretto a modificare radicalmente il modo di vivere e il "menù". L'uso del verbo impersonale krè, ha indotto alcuni studiosi, fra i quali Ettore Romagnoli, a pensare che Ipponatte alludesse in questi versi a un suo antenato, che, con la sua vita sregolata, avrebbe ridotto in miseria se stesso e i suoi discendenti. Se questa ipotesi fosse vera, il poveraccio costretto a zappare in mezzo ai sassi, nutrendosi poco e male, sarebbe il poeta stesso, privato di ogni bene ereditario. Gli studiosi che propendono per questa interpretazione ricollegano a questo passo anche il frammento successivo, il 26 a, che traccia un triste quadro delle mutate condizioni di vita dello scialacquatore (o dello stesso Ipponatte). I tre versi, legati strettamente fra loro dalla litote e dall'anafora (oùk ... où ... oùd'), rievocano nostalgicamente i tempi migliori ormai trascorsi, tanto più rimpianti in quanto confrontati con un presente ben più misero, in cui al protagonista non sono più concesse tutte le delizie gastronomiche dai nomi esotici, che in altri giorni allietavano il suo palato. Infatti, con vocaboli non greci come àttagas e attanìtas, si indicavano rispettivamente le carni delicate della pernice o del fagiano e una specie di focaccine, che venivano insaporite in vario modo dopo la cottura, mentre il termine teganìtas designava una specie di pizza al formaggio, cotta in una teglia detta appunto tèganon. La figura del goloso che dilapida a tavola il patrimonio e si riduce in povertà è assai comune nella letteratura comica greca e latina; la ritroviamo infatti in Aristofane, in Petronio (Satyricon, 38, 11-15) e in Orazio (Satire, 1, 2, 27 e segg.). In Teognide, il personaggio dello scialacquatore è contrapposto in un àinos, un "racconto", a quello dell'avaro; il primo si è ridotto all'elemosina, mentre il secondo, che si è privato di tutto per risparmiare per la vecchiaia, è morto presto, lasciando i suoi beni al primo venuto (Corpus Teognideum, 915-922). Questo apologo è stato ripreso, con evidente intento moralistico, da Orazio (Satire, libro I, 1, 95-107 e libro I, 2, 1-24), per dimostrare la validità del concetto epicureo di mediocritas, il "giusto mezzo" fra due eccessi opposti.
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