Ipponatte, ca. 450 a.C. - ca. 500 a.C.

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MAguSS
view post Posted on 28/4/2006, 18:11




Vita e poetica

Ipponatte di Efeso visse tra la metà e la fine del VI secolo a.C. Fuggì dalla città natale a causa della tirannide di Atenagora rifugiandosi a Clazomene, sempre nella Ionia. Queste vicende politiche lo segnalano come appartenente alla classe dirigente, probabilmente ad una fazione politica avversa ai tiranni. Lo stesso nome (“signore dei cavalli”) lo qualifica come uomo dell’alta società (in generale, tutti i nomi contenenti 'hippos' rivelano nobili origini), mentre la sua opera tradisce la mano dell’artista fine e smaliziato, attento conoscitore della tradizione letteraria e padrone dei mezzi stilistici ed intellettuali sufficienti per diventare una figura di spicco nel quadro della lirica greca arcaica.
La tradizione biografica presenta parallelismi sospetti con quella di Archiloco: i suoi avversari maggiori, i fratelli Bupalo e Atenide, entrambi scultori, si sarebbero suicidati a causa dell’aggressività dei versi di Ipponatte, adirato con loro perché l’avrebbero ritratto con fattezze deformi; inoltre, Bupalo avrebbe rifiutato la figlia al poeta: due episodi che ricalcano con troppa precisione la storia dell’ostilità tra Archiloco e Licambe.

Per lungo tempo Ipponatte è stato presentato come un poeta pitocco, “perché si autopresenta come un poveretto, o quanto meno lo si è voluto poeta per i poveri, perché la sua tematica tocca i livelli bassi della società” (1). Se le vicende biografiche e il nome lo individuano senz’altro come personaggio di alto livello sociale, per sfatare il secondo pregiudizio occorre rifarsi alla sua stessa opera, che è letteratissima, e alle recenti conoscenze acquisite riguardo al pubblico della poesia lirica arcaica: “il luogo dell’elegia e del giambo era il simposio. […] il giambo, ad esempio, è stato interpretato come spettacolo pubblico tradizionale […]. Sembra però più credibile la posizione di chi, salvaguardando la dimensione integralmente simposiale di elegia e giambo, vede nel simposio la continuazione privata e ristretta della festa pubblica” (2): qualunque teoria si voglia preferire, non c’è spazio per un pubblico di poveri e – ipso facto – illetterati. Oggi la poesia di Ipponatte ci appare come “un aristocratico lusus di alto livello e dalle multiformi, imprevedibili capacità espressive, scanzonato, burlesco, irriverente, decisamente antiomerico. […] Vi si aggiunga, oltre all’alta maestria tecnica, l’ironia, il singolare, spiccatissimo Humor, il tono scherzoso, disincantato, talvolta beffardo, […] nonché l’amore per il paradosso, la stramberia e non meno per il termine insolito e pittoresco” (3).

(1) L. E. Rossi, "Letteratura greca", Le Monnier, Firenze 1995, pag. 108
(2) Id., ibid., pag. 99
(3) E. Degani, "Note sulla fortuna di Archiloco e di Ipponatte", in "Poeti greci giambici ed elegiaci. Letture critiche", a c. di E. Degani, Mursia, Milano 1977, pagg. 123-4
 
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MAguSS
view post Posted on 30/4/2006, 20:37




La violenta invettiva (Frammenti 28-36-19)
Il carattere aggressivo dei giambi di Ipponatte, ben noto in tutta l'antichità per non risparmiare nè uomini nè Dèi, risalta in modo inequivocabile da questi tre frammenti, che, con il loro tono popolaresco e sboccato (almeno in apparenza), offrirono numerosi spunti ai poeti posteriori. La commedia attica, infatti, ne ereditò la iambikè idèa, il gusto per l'invettiva diretta e senza mezzi termini; Callimaco, raffinato esponente della poesia ellenistica, apprezzò, da vero erudito, la patina esotica del linguaggio; Eroda (o Eronda), autore di mimi vissuto intorno al 270 a.C. o qualche decennio più tardi, volle considerarsi erede di Ipponatte nella tradizione della poesia giambica, la cui virulenza affascinò anche Orazio (Epodo 6, 14).

Mimnè, porco pervertito, non dipingere più
sulla fiancata della nave dai molti remi quel serpente
che, dallo sperone, fugge verso il timoniere;
sarà davvero una disgrazia e un malaugurio
- schiavo di schiavi, carogna - per il timoniere,
se il serpente gli azzanna una gamba!

Pluto - infatti è proprio cieco per davvero -
non è mai venuto a casa mia, nè mi ha detto: "Ipponatte,
ti regalo trenta mine d'argento
e tante altre belle cose". E' proprio un vigliaccone.

Quale tagliaombelichi ti strigliò dal sudiciume e ti lavò,
o marchiato da Zeus, mentre sgambettavi?


Il primo dei tre frammenti è diretto contro un artigiano, un certo Mimnè, il cui nome indica forse una provenienza lidia o cretese, modesto decoratore di navi. Era uso comune che sulla prua delle imbarcazioni si dipingessero, per buon augurio, due grandi occhi (la consuetudine è largamente documentata dalla pittura vascolare), in modo che la nave potesse "vedere" bene la rotta ed evitare l'urto contro gli scogli nascosti sotto il pelo dell'acqua. Ma il pittore Mimnè ha qui commesso un errore imperdonabile; per desiderio di originalità, invece di seguire la tradizione, ha voluto dipingere un serpente sulla murata di una trireme. Però, invece di rivolgerne il capo e lo sguardo verso la prua, lo ha raffigurato con la testa rivolta a poppa, dove stava il timoniere, così che gli occhi del rettile appaiano minacciosamente fissi su di lui, come se l'animale avesse intenzione di azzannargli una gamba. Secondo alcuni, il "serpente" non sarebbe altro che una banda colorata che Mimnè avrebbe dovuto dipingere sulla murata; ma essendo poco capace, l'ha tracciata talmente storta e piena di gobbe da farla rassomigliare a un serpente, attirandosi lo scherno e l'invettiva del poeta, il quale, nel suo linguaggio, non rifugge dall'uso di termini allusivamente osceni e non greci (katomòkane, nikùrta, sàbanni).
Nel secondo frammento è Pluto, il Dio della ricchezza, a fare le spese del carattere rissoso di Ipponatte, che gli rinfaccia astiosamente e in modo blasfemo la propria miseria, rimasta senza soccorso. TUttavia al di là dell'apparente immediatezza del testo, in cui per la prima volta il Dio della ricchezza è rappresentato come cieco (lo spunto fu ripreso da Aristofane, Plauto), non possiamo fare a meno di notare l'erudizione del poeta, che traspare dalla disinvoltura con cui egli capovolge completamente un passo di Esiodo (Theogonia, 972-974), che descrive Pluto come un Dio benefico, pronto ad arricchire il primo che gli capiti di incontrare.
Anche nell'ultimo frammento, il linguaggio realistico e triviale con il quale Ipponatte si rivolge all'ostetrica che ha aiutato a venire alla luce l'odiato Bupalo, chiamandola "tagliaombelichi", rivela, ad una più attenta indagine, insospettate origini colte, desunte dalla terminologia ippocratica di un trattato di ginecologia e ostetricia. Anche lo sprezzante neologismo dioplegès, "marchiato da Zeus", coniato dal poeta, ricorda assai da vicino l'omerico diogenès, "nato da Zeus", e forse reca in sè l'eco di un'altra espressione dell'Iliade (libro XIV), upò plèges Diòs, "sotto il colpo di Zeus", parte di una similitudine nella quale si paragona la rovinosa caduta di Ettore, colpito da Aiace con una grossa pietra, all'abbattersi di un'immensa quercia schiantata dal fulmine.
 
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MAguSS
view post Posted on 1/5/2006, 14:33




Eroi da taverna (Frammenti 128-26-26 a)
Questi tre frammenti ci presentano personaggi del tutto sconosciuti, esponenti di quella pittoresca e canagliesca umanità che popolava le città della costa asiatica, frequentate da gente di ogni risma. Il poeta li osserva con occhio impietoso, pronto a bollarne le miserie morali e materiali con versi pieni di caustico sarcasmo.

Musa, il figlio di Eurimedonte, Cariddi che il mare risucchia,
che ha nella pancia un coltello*, che si ingozza senza pudore,
cantami, perchè crepi di mala morte, con voto di condanna,
per volontà popolare, sulla riva del mare instancabile.

Uno di loro, in santa pace e senza economia,
banchettando tutti i giorni a tonno e intingoli*
come un eunuco di Lampsaco, si mangiò il patrimonio;
e ora bisogna zappare le petraie di montagna, rosicchiando
un po' di fichi secchi e pane d'orzo, un foraggio da schiavi.

Senza più spolpare pernici e lepri,
senza spalmare sesamo sulle focaccine,
senza tuffare le frittelle nel miele.


*: L'espressione, non chiarissima, vorrà dire che è tanta l'avidità con cui questo repellente individuo ingurgita il cibo senza nemmeno tagliarlo, da far pensare che abbia nello stomaco il coltello di cui non si serve a tavola.
**: Il tonno, salato o sott'olio, era considerato un cibo da ricchi, come pure l'altra pietanza, una salsa di formaggio, aglio e aceto.

Nel primo frammento, Ipponatte ci offre un esempio del tutto nuovo della poesia scommatica, arguta e mordace, costruita interamente con espressioni omeriche sfruttate a fini parodistici, dimostrando così la sua grande familiarità con il linguaggio dell'epos. Per schernire un personaggio a noi sconosciuto, ma caratterizzato da un appetito...epico (potrebbe anche trattarsi di una scherzosa iperbole, destinata a stigmatizzare il comportamento ineducato di un compagno di simposio troppo avido), Ipponatte esordisce con un solenne incipit, che contamina il primo verso dell'Iliade con il primo dell'Odissea. Vi aggiunge poi un àpax di sua creazione, pontokàrubdin, con cui vuole indicare non solo l'enorme quantità di liquidi che l' "eroe" della scena è capace di ingurgitare, ma anche i rumori che produce nell'ingozzarsi senza misura, tanto da meritarsi una condanna a morte per decreto popolare, da eseguirsi "sulla riva del mare instancabile"; conclusione anch'essa di tono epico, sottolineata con l'utilizzazione, del tutto fuori luogo e per questo comica, di un emistichio omerico formulare (Iliade, libro I, 316 e numerosi altri luoghi).
Anche il protagonista del secondo frammento è uno sconosciuto, che ha dilapidato l'intero patrimonio a causa di un eccessivo amore per la buona tavola. Ora che non ha più mezzi, la miseria lo ha costretto a modificare radicalmente il modo di vivere e il "menù". L'uso del verbo impersonale krè, ha indotto alcuni studiosi, fra i quali Ettore Romagnoli, a pensare che Ipponatte alludesse in questi versi a un suo antenato, che, con la sua vita sregolata, avrebbe ridotto in miseria se stesso e i suoi discendenti. Se questa ipotesi fosse vera, il poveraccio costretto a zappare in mezzo ai sassi, nutrendosi poco e male, sarebbe il poeta stesso, privato di ogni bene ereditario.
Gli studiosi che propendono per questa interpretazione ricollegano a questo passo anche il frammento successivo, il 26 a, che traccia un triste quadro delle mutate condizioni di vita dello scialacquatore (o dello stesso Ipponatte). I tre versi, legati strettamente fra loro dalla litote e dall'anafora (oùk ... où ... oùd'), rievocano nostalgicamente i tempi migliori ormai trascorsi, tanto più rimpianti in quanto confrontati con un presente ben più misero, in cui al protagonista non sono più concesse tutte le delizie gastronomiche dai nomi esotici, che in altri giorni allietavano il suo palato. Infatti, con vocaboli non greci come àttagas e attanìtas, si indicavano rispettivamente le carni delicate della pernice o del fagiano e una specie di focaccine, che venivano insaporite in vario modo dopo la cottura, mentre il termine teganìtas designava una specie di pizza al formaggio, cotta in una teglia detta appunto tèganon.
La figura del goloso che dilapida a tavola il patrimonio e si riduce in povertà è assai comune nella letteratura comica greca e latina; la ritroviamo infatti in Aristofane, in Petronio (Satyricon, 38, 11-15) e in Orazio (Satire, 1, 2, 27 e segg.). In Teognide, il personaggio dello scialacquatore è contrapposto in un àinos, un "racconto", a quello dell'avaro; il primo si è ridotto all'elemosina, mentre il secondo, che si è privato di tutto per risparmiare per la vecchiaia, è morto presto, lasciando i suoi beni al primo venuto (Corpus Teognideum, 915-922). Questo apologo è stato ripreso, con evidente intento moralistico, da Orazio (Satire, libro I, 1, 95-107 e libro I, 2, 1-24), per dimostrare la validità del concetto epicureo di mediocritas, il "giusto mezzo" fra due eccessi opposti.
 
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MAguSS
view post Posted on 1/5/2006, 18:20




Ipponatte: lettura critica
L'autore, noto studioso della lirica greca, propone una lettura di Ipponatte che intende smentire la fama di poeta "maledetto" che circonda il giambografo, per offrirne una interpretazione criticamente più solida e filologicamente più esatta, attraverso un'attenta analisi dei frammenti ipponattei giunti fino a noi. L'opera si rivela di particolare interesse per il rigore e l'acutezza con cui è condotta la capillare ricerca delle matrici illustri dalle quali trae origine il lessico del poeta.

Incapsulato in grotteschi clichès letterari - poeta per eccellenza "maledetto" con l'aggiunta di varie, supplementari etichette: da "plebeo" a "proletario", da "pitocco" a "delinquente" e via dicendo, fino alle più moderne qualifiche di "angry" e di "beat" - che ne hanno inevitabilmente offuscata la genuina cifra artistica, Ipponatte attende ancora una spassionata definizione del suo ruolo e del suo peso, certo considerevoli, nell'ambito della letteratura greca. Ad una lettura filologicamente attenta, i suoi frammenti tradiscono in realtà la mano dell'artista fine e scaltrito, tutt'altro che "plebeo", singolarmente dotato di una vena comica schietta e arguta che appare sempre, pur nei contenuti talora assai grevi, letterariamente divertita e consapevole. Ipponatte è poeta colto, conosce perfettamente l'epos e il patrimonio mitico tradizionale, che fanno di continuo le spese del suo estro poetico vivace e fantasioso. Egli sa come pochi deformare gli altisonanti moduli omerici, mescolare abilmente la formula aulica del contenuto "volgare" e viceversa, sempre allo scopo di trarne impensati effetti parodici. La sua arte, dunque, non è mai "volgare", a meno che non si vogliano formulare giudizi di stampo moralistico e perfino bigotto. Anche il frammento più "famigerato" (Fr. 92), quello per cui egli è stato definito "la lingua più laida della letteratura greca", rivela in pieno questo giuoco di consumata perizia e di alta scuola. Se Ipponatte è stato non a torto considerato l'enretès della poesia parodica ed in sostanza lo fu anche della commedia, occorre aggiungere che, per vari altri aspetti, egli appare un precursore della stessa arte alessandrina. Non a caso la cultura ellenistica - basti pensare a Licofrone, a Fenice, ad Eronda, a Callimaco, che ne fecero il loro favorito modello, ed ai numerosi grammatici ed eruditi, che ne studiarono minutamente l'opera - gli tributò un omaggio imponente. La ragione prima di tale fortuna va appunto ricercata nella natura della poesia ipponattea, che fu "un aristocratico lusus di alto livello e dalle multiformi, imprevedibili capacità espressive, scanzonato, burlesco, irriverente, decisamente antiomerico". E questa ultima sua dimensione, che fa in qualche modo di Ipponatte proprio l'opposto di Archiloco, non doveva dispiacere ad un Callimaco. Il reciso rifiuto del pathos, di ogni poesia ispirata e solenne, lega inoltre saldamente il poeta di Cirene a quello di Efeso. Vi si aggiunga, oltre all'alta maestria tecnica, l'ironia, il singolare, spiccatissimo humor, il tono scherzoso, disincantato, talvolta beffardo, che contraddistinguono - pur nella loro diversità - l'uno come l'altro poeta, nonchè l'amore per il paradosso, la stramberia e non meno per il termine insolito e pittoresco: si intenderanno così le ragioni di fondo della "scelta" operata da Callimaco.

(Da: Ernesto Degani-Giovanni Burzacchini, Lirici Greci, La Nuova Italia, Firenze, 1977, pagg. 43-44)
 
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